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Quando il paziente è …impaziente. Attenzione agli errori.

Alcune settimane fa si è presentata nel mio studio una signora poco più che quarantenne, in evidente sovrappeso. Mi racconta la sua storia iniziata circa 20 anni prima; la depressione post-partum, poi gli attacchi di panico sempre più frequenti sempre più severi, che sono il suo passato ed il suo presente. Mi descrive i suoi sintomi, la disperazione, l'angoscia delle sue giornate, il progressivo isolamento, le speranze e le delusioni provate. Mi parla dei tanti, tantissimi medici, neurologi, psichiatri ma anche endocrinologi a cui si è rivolta negli anni, dei tanti, troppi farmaci, spesso frettolosamente prescritti, dai quali non ha ottenuto se non modesti e mai duraturi benefici. Basta dire che per un periodo di tempo imprecisato è arrivata ad assumere 19 compresse al giorno di psicofarmaci prescritti da uno psichiatra. Nessuno dei miei colleghi, a quanto sembra, si è mai preoccupato di valutare gli effetti collaterali dei farmaci, in particolare l'aumento del peso, anzi qualcuno ha pensato bene di associarne altri per dimagrire o ridurre il senso di fame. L'ho ascoltata, le ho spiegato cosa intendevo fare, quali farmaci le avrei prescritto e i loro possibili effetti collaterali e cosa mi aspettavo da loro. Ho cercato di rassicurarla ma nel contempo le ho fatto presente con chiarezza che ci sarebbe voluto del tempo, che magari avremmo dovuto rivedere il dosaggio dei farmaci prescritti o forse anche sostituirli, se necessario. Le ho lasciato comunque per qualsiasi evenienza o chiarimento i miei recapiti telefonici.
La sera stessa del nostro primo incontro mi ha chiamato al cellulare due volte e mi inviato un lungo messaggio raccontandomi di nuovo i suoi sintomi, sottolineando il suo profondo sconforto, la paura di non farcela a guarire. Ogni volta l'ho rassicurata, le ho chiesto di avere fiducia , anche pazienza, ma le ho anche detto che era importante che cominciasse a reagire. La mattina dopo mi ha richiamato, prima lei poi un suo familiare; non stava bene, le ho fatto presente che questo era naturale, dal momento che praticamente non aveva neanche iniziato la terapia. Nella stessa giornata ancora messaggi, ai quali ho sempre risposto, tutti sullo stesso tono ed un paio di telefonate. Ancora un paio di messaggi il giorno successivo in uno dei quali mi scrive di avere parlato con il suo psichiatra di fiducia che si era “adirato” per la sua decisione di rivolgersi ad un altro specialista e che inoltre, starei per dire era ovvio, non “condivideva la mia terapia”. Ho avuto la netta sensazione che anche la signora andasse maturando questa convinzione, confermata,poche ore dopo da un nuovo messaggio che mi manifestava l’intenzione di non voler più assumere i farmaci che le avevo prescritto.
Il racconto termina qua. Non voglio parlare del caso singolo, né in questa sede del comportamento dei miei colleghi, ma prendo spunto da questo episodio per chiarire alcuni punti importanti.
Di professione faccio il neurologo non sono un santone né uno che guarisce con l'imposizione delle mani.
Le mie scelte terapeutiche sono frutto di evidenze scientifiche, di un costante e continuo aggiornamento oltre che dell'esperienza maturata negli anni. I farmaci, e qui parliamo specificatamente di psicofarmaci, non fanno miracoli, sono sostanze chimiche, con specifici meccanismi di azione che necessitano per agire, per “fare bene”, di un periodo di tempo che dipende dalle caratteristiche del farmaco, dagli anni di malattia e da altri fattori significativi.
Ad esempio molti degli antidepressivi serotoninergici (SSRI) , tra i più prescritti, necessitano, come riportato sul bugiardino, di almeno 2 settimane per manifestare l’effetto terapeutico. Questo presuppone che prima di quel termine, ma io ritengo che sia necessario almeno un mese di terapia, non è possibile, formulare un giudizio corretto sulla sua efficacia o meno. Solo allora il farmaco potrà, se non prodotto i benefici attesi essere sostituito. Il dosaggio dei singoli farmaci invece puo’ essere modificato anche in tempi più brevi.
Purtroppo alcuni pensano di poter stare molto meglio se non addirittura di “guarire” entro pochi giorni dall’inizio di una terapia farmacologica e magari, cosa che più volte mi è capitata, sono gli stessi pazienti che per anni e anni seguono una psicoterapia senza porsi domande o scadenze e senza meravigliarsi se non hanno dei miglioramenti. Dal neurologo o dallo psichiatra, al quale si rivolgono dopo anni di malattia, quando proprio non ne possono più, vogliono invece la risoluzione immediata di tutti i problemi.
Quando un paziente da me visitato mi chiama dopo pochi giorni e mi dice di sentirsi molto meglio penso che questo sia il primo importante effetto del rapporto di fiducia che si è instaurato tra medico e paziente, convinto di avere intrapreso un percorso positivo. Ma la chimica impiega un po’ più di tempo.
Mi piacerebbe che queste mie considerazioni possano stimolare una discussione tra i lettori, aiuterebbe noi medici a comprendere meglio e voi a riflettere.
Dr. Francesco Cesarino
neurologo

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